Scurolo di Sant'Alessandro
Descrizione
Lo scurolo di Sant’Alessandro, simbolo di aggregazione della comunità di Fontaneto, con i recenti restauri ha riconquistato l’immagine originaria, goduta per la prima volta dal popolo nell’agosto 1850, in occasione della prima solenne traslazione delle reliquie nel sacello. Nel 1839 l’arciprete don Martino Jelmoni aveva ottenuto dalla Curia romana i Sacri resti con un “vaso di sangue”, provenienti il 12 gennaio 1832 dal cimitero di Sant’Ippolito sulla via Tiburtina. Ricomposti, furono collocati sotto l’altare di Tutti i Santi della Parrocchiale. L’idea di costruire uno scurolo per custodire le reliquie nacque nel dicembre 1840 e l’8 luglio successivo la Fabbriceria deliberò «di invitare l’Ill.mo Sig.re Architetto Alessandro Antonelli di Maggiora… per un suo disegno». I fontanetesi si rivolsero al massimo architetto che il Piemonte disponeva e spettò a lui la scelta del sito, donato dai Visconti, su cui innalzare l’edificio.I lavori dello scurolo durarono 10 anni; in un primo tempo lo si voleva inaugurare nell’estate1849, rispettando la scadenza decennale dell’arrivo dei sacri resti da Roma. La sconfitta di Novara nel marzo di quell’anno degli eserciti di Carlo Alberto da parte delle truppe austriache di Radetzky costrinse a ritardare i primi grandi festeggiamenti all’anno seguente, scegliendo la seconda domenica di agosto, quando i campi non richiedevano particolari cure. Il ceroplasta don Giulio Gugliemetti, che già nel 1839 aveva ricomposto le reliquie, mascherò il macabro scheletro con un volto di cera dall’espressione dolce, realisticamente segnato dalla ferita grondante sulla fronte. In stretta analogia con i problemi politici italiani del tempo, per Fontaneto il martire fu il “Risorgimento”, assunse subito una valenza emblematica di unità nelle diversità dei nuclei frazionali di appartenenza. Nella microstoria del paese la presenza assumeva i connotati del riscatto dei fontanetesi dopo un millennio di oppressioni e di duro lavoro nei campi, prima come “famuli” del monastero, poi come “massari” dei Visconti. Non fu una presa di coscienza immediata se, come scrive il notaio Giacomo Crespi nelle sue Memorie, alla festa della traslazione del 1850, per divergenze con l’arciprete, non partecipò l’amministrazione comunale. Ma neppure i compadroni presero parte, se non la contessa Elisabetta Ottolini Visconti, grande benefattrice nell’impresa perché particolarmente legata al possedimento di Fontaneto, la quale nell’occasione acquistò, a 88 lire e 10 centesimi, la vecchia tunica del Santo, donando al tesoriere 800 lire per il vestito nuovo di «raso rosso ricamato in oro». Con il trascorrere del tempo i fontanetesi si dimenticarono dell’antico patrono san Sebastiano titolare della chiesa del castello, che rappresentava il “vecchio” mondo di sacrifici. Tra la seconda metà dell’Ottocento e il terzo decennio del secolo successivo i contadini incominciarono ad acquistare per sé stessi quella terra da secoli duramente lavorata e sant’Alessandro per loro rappresentò il riscatto e l’inizio di una nuova era. La missione edificante del martire, raccontata con passione nei bassorilievi come storia concreta di speranza mediante immagini didatticamente efficaci, commuove e ammaestra e Alessandro universalmente assurge a modello da seguire.
Testo: Ivana Teruggi
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